mercoledì 16 gennaio 2008

"A Poetic Retelling Of An Unfortunate Seduction"

Dove sono? In che mese mi trovo?”- Mi alzo dal pavimento gelido. Sento di essermi appena svegliata, ho ancora gli occhi appannati. Li strofino ferocemente, presa da un raptus di agonia - “E’ quel dormiveglia che ti annienta lo spirito“, penso.
Già, perché sotto le palpebre quelle visioni sono ancora vive, benché coscienti di esser sul punto di esalare il loro ultimo, affannoso respiro. Come tutti i moribondi infelici di dover passare a miglior vita, anche loro lottano per sopravvivere.
Non ho ancora terminato i miei studi di legge, ma oggi sarò giudice, toccherà a me emettere la loro sentenza. “Non conosco bene i fatti... Li vedo danzare qui davanti a me, ma non li ricordo veramente” - Oso contraddirmi. “Un buon giudice non lo farebbe mai” rimprovero a me stessa, mentre rintronata mi tocco la testa, quasi per addurre al mio cospetto, unica Corte di giustizia, una qualche prova della mia esistenza.
Non è da molto che sono tornata, non ho passato molto tempo via da qui“ - Di nuovo, delle macchie puntiformi sui miei occhi mi catapultano al di là di quanto mi è dato sapere. Sono a terra.
Una scossa elettrica mi attraversa le membra, sento il cervello come in fiamme. Apro gli occhi: buio. Ho la faccia spiaccicata sulle mattonelle e le mie labbra socchiuse si ringalluzziscono per la polvere che hanno involontariamente ingoiato. “Hum hum, hum hum” - tossisco disperatamente e al contempo mi ritrovo il viso colmo d’acqua salata - “Piango per spegnere le vampate di fuoco”- penso attraverso il mio corpo, in quanto la testa è posta subito a riposo - “Piango per non arrossire”.
Sento le parti di me come disgregarsi in tanti piccoli puzzle. Se li ricomponiamo tutti otteniamo dei pezzettini di me, e se li assembliamo, forse ritorno integra.
Non sento la verità” - blatero - “Non la sento”. Ho focalizzato troppo a lungo quei puntini: come il mio corpo, anch’essi si ritrovano a sé stanti dalla massa. “Il tutto per il niente. Il niente quale tutto”, osservo con naturalezza, mentre tento di sedermi per poi rialzarmi, come un bimbo che muove i suoi primi passi. Solo che ritrovo il soffitto quale suolo e le piastrelle quale tetto: “Credo di essere capitombolata”.


Un ulteriore tentativo di rinascita da tale stato comatoso, mi spinge a ripetere l’inconsueta operazione. Sì, credo di reggermi sulle piante dei miei piedi, ora.
Cosa mi è successo? Chi mi ha fatto questo?” - il solo fatto di pormi dei quesiti sarà pure un buon segno. La mia vista si accorgerebbe di quanto la testa mi stia girando, se solo non avesse fisse davanti a sé quelle immagini. “Ma cosa significa!” - grido a più non posso, strimpellando stonata delle note di voce a mo’ di canzone. Il motivetto sembra non trovare seguito nella mia mente, e come una hit non gradita al pubblico, rimane impietrita in quell’unico istante in cui viene condivisa. In quel momento, ero la spettatrice di me stessa.
Now I know a disease that these Doctors can’t treat. You contract on the day you accept all you see is a mirror and a mirror is all it can be, a reflection of something we’re missing.
Voglio fare le cose per bene. Non so da quale forza mistica sia ora posseduta, ma ne voglio venire a capo. “Specchio” - chiamo ad alta voce, nell’illusione delirante che mi possa ascoltare e che possa rispondere al mio invito il quale, se mi aveste sentito, avreste scambiato per un ordine.
Perentoria nei toni e nei movimenti mi trascino tra le stanze della casa, e mano a mano che avanzo mi sento sempre più piccola e come all’interno di un vasto intricato labirinto. Selvaggia, roteo su me stessa, accompagnandomi nella danza al moto vertiginoso della Terra, quale fittizia fonte della mia flebile energia. E la rotatoria che delineo quale scarsa ballerina compone indisturbata le sue figure, proiettando nello spazio vuoto della memoria, immagini corporee e sfocate.
Quale amante della musica, odo melodie mute. La loro sordità non ne assorbe il significato - “Mio unico elemento di certezza, amica delle notti più tetre” - riconosco tutt’altro che stupita, producendo suoni per nulla melodiosi, ma striduli e assordanti per lo strisciare delle punte sulla terra.
Lentamente mi accosto alla fredda finestra della stanza in cui sono or ora finita. “Tutto quel girare mi ha condotto qui” - fatalmente ammiro. La mano destra, ancora tremolante per effetto dell’appena trascorso volteggiare, si fa ansiosa e assetata, e con uno scatto istintivo scosta a lato la dorata tenda che sovrasta la vetrata.



E’ ruvida al tatto, e un po’ me ne accorgo. Bene, i miei sensi stanno rinvenendo da quell’anomalo stato di quiescenza presto tramutatosi in delirio. La dorata tenda è di un materiale trasparente: volendo, si può intravedere cosa vi sia al di là. Io però ne ho abbastanza di questi vedo-non vedo, di questi ambigui indizi disseminati davanti alle pupille dei ricordi, di questi puntini privi di un insieme - “No, voglio trasparenza”.


Con fare smanioso completo l’opera. “Eccola la trasparenza del vetro” - sorseggio, assetata di verità.
Fuori, i colori delle illuminazioni allietavano la notte. Gli alberi in festa erano addobbati con grazia e i balconi delle case al di là della via splendevano iridescenti nella loro spensieratezza. Ad un tratto, noto il mio riflesso. Come un ritratto alquanto opaco, mi fissa sentenzioso. “Pronunciati, ti ascolto” - sussurro mentre sosto nel limbo tra me e me.
Mi ritiro nell’attesa.
All’improvviso, un flash. Tutto mi appare chiaro. Non ho bisogno di parole per comprendere una canzone strumentale, solo concentrazione. Se chiudo gli occhi, ora, o se li apro, vedo esattamente la stessa immagine, malinconica e felice in un solo colpo. Le chiazze puntiformi si erano riunite in collegio e avevano decretato, per me, la loro limpidezza.
Finalmente la vista aveva ripreso a funzionare, e con lei, tutto il mio corpo. Era semplice, ora: “Oh we're so very precious, you and I. And everything that you do, makes me want to die”.
Per la prima volta, ero stata innamorata.

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